Qui sotto l’intervento che mi ero preparato per la Charrette Ex Plip Magical Urban Box
A differenza di molti degli altri relatori non son un professore, o meglio, lo sono, ma insegno informatica, suvvia non fate quelle facce preoccupate stasera, per vostra fortuna o forse sfortuna, non vi parlerò di informatica.
Sono qui perché sono un membro del direttivo di AEres Venezia, cui partecipo con l’associazione Luoghi Comuni con la quale mi occupo da anni di eventi in città, ed in particolare di carattere sociale con lo scopo più o meno esplicito di creare occasioni per lo sviluppo di relazioni e comunità e per una riappropriazione dei luoghi pubblici.
Quello che vi racconterò stasera è un ragionamento, una ricerca assolutamente personale e perennemente in fieri che sto sviluppando negli anni; vedrete il mio contributo sarà un ragionamento teorico, ma inferito dalla pratica e che, in questa sede, potrà concretizzarsi, grazie al vostro lavoro dei prossimi giorni.
Il mio interesse da una decina d’anni si è focalizzato sulla comunità e sui luoghi ed in particolare sui luoghi di comunità, temi sui quali come detto ho avuto l’opportunità di lavorare in città, ma al contempo di rifletterci.
Qualche anno fa fui invitato a Parco del Contemporaneo, un ciclo di conferenze di riflessione su Forte Marghera organizzato da Roberto Caldura, lì proposi per la prima volta la suggestione del concetto di ipercasa; in quell’occasione per provare a inquadrare il ruolo del Forte proposi di pensare alla città proprio come un’ipercasa.
Il prefisso iper come ben sapete si utilizza per aggiungere una dimensione a un concetto già noto, un cubo può essere visto come un iperquadrato, ovvero un quadrato con anche la terza dimensione, allo stesso modo gli ipertesti rispetto ai testi contengono una dimensione in più data dai collegamenti ipertestuali (ok, la smetto, ve l’avevo promesso, non vi parlerò più di informatica).
In sostanza proposi un parallelismo tra casa e città, quest’ultima vista come un’“ipercasa” formata da “iper-stanze”: in quest’ottica si possono definire le case dei singoli come una sorta di iper-camere da letto della città, luoghi privati deputati soprattutto ad attività di riposo;
analogamente possiamo definire gli, uffici ovvero i luoghi di lavoro nella logica delle iper-stanze come degli iper-studi; i ristoranti si possono vedere come iper-sale da pranzo, i parchi come iper-giardini.
Nelle case tutte le stanze tranne una assolvono ad uno scopo preciso, a differenze delle altre l’unica stanza che non assolve per sua natura a un ruolo specifico è il soggiorno: luogo di accoglienza, incontro, ma anche di ozio, lettura e creatività.
Portando avanti il parallelismo proposi di pensare al forte come una possibile incarnazione dell’archetipo di spazio pubblico inteso come “luogo comune” come iper-soggiorno: uno spazio in cui la cittadinanza possa trovare casa, dove possa esprimersi, formarsi e crescere, luogo in cui si sviluppi un senso di comunità basata sul senso civico e sulla cultura.
Inquadravo in quell’ottica il possibile sviluppo di Forte Marghera.
Pian piano riflettendo mi sono accorto che quella visione, ovvero il parallelismo tra città e casa, poteva funzionare ma il concetto di ipercasa non era del tutto calzante, per due motivi.
Il primo: il concetto di casa, che nella nostra società è sempre più un luogo del tutto intimo e privato, luogo di atomizzazione più che di comunità (pensiamo ai monolocali per single…).
il secondo: perché in quella suggestione la città non era davvero un’ipercasa, non aveva davvero una dimensione in più, per quanto affascinante, quello sviluppato, era semplicemente un parallelismo, la città si configurava come una casa più grande, aumentavano semplicemente le proporzioni, era semplicemente un cambiamento di scala.
Oltretutto quello era una sorta di modello descrittivo, seppur con qualche spunto, c’era ben poco di innovativo e totalmente soggetto al paradigma imperante; tuttavia il concetto di cosa potesse essere un’ipercasa era un problema aperto affascinante.
Il fatto che ogni luogo inteso (come iperstanza) avesse un senso univoco pian piano col tempo ha iniziato a starmi stretto, era uno schema da catena di montaggio, uno schema innaturale e insalubre.
Quante volte in casa utilizziamo impropriamente una stanza, quante volte ci attardiamo a leggere in bagno, ci fermiamo a studiare o a lavorare in cucina o facciamo il bilancio di entrate e uscite stesi a letto.
Ho quindi ripensato il concetto di ipercasa accantonando il parallelismo stretto con la città.
Ho tentato di inquadrare la dimensione ulteriore di un’ipercasa rispetto a una casa, trovandola nella dimensione relazionale tra diverse soggettività.
A quel punto mi si è chiarito che non si dovesse pensare la città come ipercasa, ma si dovesse altrimenti inquadrare il concetto di ipercasa in uno spazio pubblico, un “luogo comune” di relazione, che dovesse al contempo essere percepito come casa, come “luogo intimo”, in cui riconoscersi e sentirsi al sicuro; un’ipercasa deve possedere una pluralità di funzioni al proprio interno, analogamente a come una casa che grazie alle varie stanze assolve a diverse funzioni, ma con in più la dimensione relazionale.
L’ipercasa mi piace pensarla come un luogo che sia portatore di un ordine disordinato e di un disordine ordinato, anche in opposizione all’ordine asettico che con brutalità travolge persone, vite e relazioni all’altare in nome di una presunta efficienza.
Vedo quindi il Palaplip come un’ipercasa in cui attività di natura diversa convivano fianco e fianco in un brulicare di progettualità, profit, no profit, low-profit, in cui possano convivere la bioosteria, la libreria della decrescita, uno spazio co-working, uno spazio off a libero accesso, uno spazio eventi, sale riunioni, una bottega dell’altra economia…
Pensando ad AEres posso aggiungere che uno dei progetti che più l’ha caratterizzata e rappresentata in questi anni è stato il mercato del biologico e sociale; l’idea di mercato ha già in sé e pone al centro la relazione, meticciandola con lo scambio anche economico, valorizzando la conoscenza dei prodotti quindi il consumo consapevole e la personalizzazione e il rapporto fiduciario tra produttore e consumatore; l’altraeconomia di fondo è quella il cui scopo non è massimizzare il profitto, ma generare benessere per la comunità in un’ottica di relazione, di valorizzazione della persona e di attenzione ai soggetti più fragili siano essi persone svantaggiate, l’ambiente naturale o persone che vivono in paesi in via di sviluppo.
Probabilmente Maurizio dirà che sto dicendo una corbelleria, “se sbaglio mi corriggerà”, mi sembra, se posso azzardare, che la svolta nel mio concetto di ipercasa, tra prima e seconda maniera, rispecchi in qualche modo il passaggio che c’è stato tra il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa e Innovazione Sociale, nel primo caso un’impresa si occupa anche del benessere dei suoi stakeholder nel secondo caso l’occuparsi della socialità è insito nell’impresa o nel soggetto stesso che porta avanti un’attività.